venerdì 21 maggio 2010

ULTIMO TACCUINO

Si può amare la propria malattia?

È questa la domanda che ossessivamente continuo a pormi, rinunciando a priori ad una risposta, mentre resto in attesa, la casa vuota e buia, la porta d’ingresso alla fine delle scale lasciata aperta.

Non mi riferisco alla rassegnazione a cui il malato approda, quasi invariabilmente, quando la lotta contro il morbo si è fatta vana e l’afflizione del corpo diventa mutamento, acquistando le fattezze di una nuova, tragica identità. Uno stadio che segue a quelli della negazione e della paura e che a volte è il necessario passaggio per un’insperata e improbabile guarigione.

No, io sto pensando – se pensieri si possono definire queste spirali mentali, che partono dal nulla e a nulla arrivano – ad un vero e proprio innamoramento, un’ossessione che riguarda una entità ben precisa, che per qualche decisione del Destino ha scelto te invece che milioni di altri esseri, ben più meritevoli del suo terribile amore.

Mi domando e aspetto, nel buio illuminato solo dalla luce dello schermo su cui vedo apparire le parole che voi leggerete.

C’è stato un rumore, sotto. In altri tempi non lo avrei avvertito, ma i miei sensi ultimamente si sono fatti incredibilmente acuti, come quelli di un protagonista di racconto di Poe. Buffo pensiero, potrei essere io uno di quei personaggi, immaginandomi di trovarmi a scrivere con una penna d’oca in un’ala di un castello in rovina, piuttosto che in questa casa ai confini della città.

Il rumore non si ripete. Ho ancora un po’ di tempo, credo. Di certo non è stato il gatto.

Non so bene il motivo per cui sto scrivendo, voi leggerete questo scritto e penserete che sia un racconto. Magari lo criticherete anche o, come si dice nel nostro/vostro gergo, lo “svaccherete”. Non importa, ogni cosa va bene, perché non sarò lì a leggere l’unica cosa che veramente mi potrebbe importare, ovvero la risposta alla mia domanda.

Si può amare la propria malattia?

Quando sono entrato nel sito, ormai qualche anno fa, non ero “vergine” di pratiche sadomasochistiche. Non che mi sentissi un novello De Sade o Von Masoch, ma le circostanze del destino e una certa rilassatezza rispetto alle aspettative, da molti confusa con sicurezza di sé (equivoco che mi sono sempre ben guardato dal chiarire), mi avevano permesso di realizzare parecchie delle mie fantasie. E quelle non concretizzate mi erano venute a noia, al solo pensarle troppo.

Con quella saggezza degli sciocchi chiamata il senno del poi, posso comprendere che questa attitudine era terreno fertile per il proponimento che mi ha portato a tutto quello che è seguito, a questa attesa nel buio. L’insoddisfazione a volte sa essere un morbido guscio all’interno del quale nutrire l’immagine vagheggiata di ciò che crediamo di volere, che nella nostra stupidità pensiamo ci renderebbe immensamente felici, e che sta proprio là fuori, da qualche parte, aspettando solo di essere cercato e richiamato. Ma nel profondo sappiamo che, a volte, è meglio che quella porta giù, in fondo alle scale, resti ben chiusa.

Avendo provato ogni tipo di esperienza fisica, o quasi, mi montò man mano un completo rifiuto per qualsiasi fantasia di specifiche pratiche, baloccandomi invece sempre di più con il pensiero di un totale abbandono ad una Volontà altrui.

Velleità scontata, me ne rendo conto, ma quello che forse rendeva questo proponimento particolare, rispetto a tanti altri, e all’occorrenza anche morboso, era l’assoluta mancanza di passione nella mia ricerca. Valutavo l’esistenza, là fuori, di un Essere Superiore a cui donarmi, senza provare il sacro fuoco dello schiavo, che sente in gioco il senso stesso del suo essere in quanto tale. Anzi mi scoprivo a immaginare, nel mio sconfinato narcisismo, il gusto di cedere completamente ad una persona assolutamente non meritevole non solo della mia stima, ma anche della minima fiducia. Il disprezzo che cominciavo a sentire per questa Superiore (nelle mie fantasie doveva essere necessariamente donna) andava di pari passo con il senso di eccitazione di star giocando con pensieri essenzialmente autodistruttivi, nel gioco invisibile di chi tormenta con la lingua il proprio dente malato, atteggiando all’esterno una perfetta maschera d’indifferenza, e contenendo dentro di sé un piccolo cosmo segreto di dolore.

Postai un’inserzione, laconica, semplice. Nelle mie inutilissime letture sulle antiche pratiche della Tradizione magica ho imparato che ciò che conta, alla fine, è l’Intenzione. Ma l’Intenzione non è la volontà, non basta digrignare i denti e dire “questo lo voglio”.

Ciò porterebbe ad ipotizzare che l’essere umano abbia due livelli di “volontà”: uno razionale e conscio, destinato ad essere frustrato il più delle volte, ed in cui ci identifichiamo; ed un altro, sotterraneo, l’Intenzione appunto, che ci spinge alla realizzazione di ciò che veramente siamo, e che fa accadere le cose. Anche queste sono cose già lette e sentite, ma forse quello che i manuali di new age non dicono è che il nucleo di questa segreta volontà non riguarda sempre “la realizzazione del Sé più Alto”, e cieli azzurri e anime radianti, ma più spesso è qualcosa di oscuro, un cuore pulsante nel buio strappato dalla scatola toracica, che continua a battere, in attesa.

Lei rispose alla mia inserzione. Ricordo perfettamente il suo sintetico messaggio, parole secche, quasi disturbanti nella loro semplicità. Non mi piacquero, gli ultimi scampoli del mio istinto di sopravvivenza stavano alzando il pelo contro quella che, a qualche livello, sentivo essere un’insopportabile invasione, silenziosa e garbata nella sua laconicità come i movimenti di una geisha.

Eppure…

Non credo di avere il tempo per farvi un resoconto accurato di questa storia, e mi dispiacerebbe dovermi interrompere nel mezzo di un periodo, consentitemi questo ultimo patetico narcisismo. Dopo aver assaporato fino all’ultima fetida feccia ogni feticismo possibile, imposto da Lei, l’ultima parafilia che mi è rimasta è quella della bella frase. Patetico.

I pensieri si confondono, e la memoria mi fa scherzi. Ho scritto già quello che mi fece? Forse no, ma non ha molta importanza. Ho paura, adesso? Difficile anche questa risposta. In questo percorso – perché di percorso, infine, si tratta – ho compreso che la paura è una specie di cintura di sicurezza biologica che troppi scossoni possono spezzare, alla lunga. Che stupida metafora, sarà bene che giunga alla conclusione, la mente comincia a tradirmi.

Qualcuno potrebbe dirmi perché non fuggo via. La prima risposta è che mi troverebbe comunque, e dovunque. La seconda risposta è che ho difficoltà a muovermi, dopo varie settimane di quelli che amava chiamare i nostri “giochi”. La terza è quella più interessante.

Prima di tentare una risposta debbo fare una scusa ai lettori di questo scritto, o perlomeno a quelli che avranno avuto la costanza di arrivare fino a questo punto, vincendo la noia di una trattazione confusionaria e senza costrutto. Ho riletto qualche riga di ciò che sto scrivendo di getto e l’impressione è stata quella di una spirale che torna su se stessa, un autocompiacimento duro a sopportare che non chiede altro che qualcuno giunga a mettere la parola fine. Se questo fosse un racconto di genere, prevederebbe a questo punto la rivelazione, più o meno originale, sulla sua identità. Chi è Lei?

Mi sono fatto più volte questa domanda. Se fosse stato un parto della mia fantasia, forse sarebbe stata la Mistress dell’Oscurità, uno spettro tornato dalle Ombre, desideroso di morte e lussuria, intenzionato a compiere una propria imperscrutabile vendetta, vendetta la cui natura avrei lasciato all’immaginazione del lettore, un po’ per effetto (il peggio che può immaginare la vostra mente sarà sempre più pauroso di ciò che posso sforzarmi di immaginare io per voi) e un po’ per pigrizia.

Non è la Mistress dell’Oscurità. Ha una forma ben precisa, un’identità, vive la sua vita e si paga la casa con un lavoro monotono e banale. È la persona che potete incontrare per strada, o incrociare sulle scale, e dimenticarvene dopo cinque minuti.

Non è un essere morto, credo.

Eppure, è anche altro.

Credo che sia una malattia. Non sto parlando per metafora. Gli eventi che mi sono occorsi negli ultimi giorni mi hanno fatto credere che esistano una gran varietà di esseri, sotto questo cielo. Le malattie, i morbi, le afflizioni o come vi piace chiamarle, sono risposte che giungono a nostre ben precise domande. E non tutte prediligono il veicolo materiale di virus o batteri o sangue infetto. Alcune di queste prendono corpi e identità.

Perché ho lasciato che si arrivasse a questo, che mi riducesse a questo? Non ho alcuna giustificazione, da subito ho avuto le prime avvisaglie di quello che Lei voleva, e del posto in cui mi stava conducendo. Di certo l’ho capito dopo aver visto cosa ha fatto al gatto. Ricordo bene il suo sorriso, come avesse voluto lasciarmi bigliettini amorosi nascosti in varie stanze.

Ma era la risposta a quello che avevo chiesto, la mia personalissima perversione, quella di sperimentare da “sano”, con estrema consapevolezza, una desiderata condizione di patologia, abbracciata non con la rassegnazione del malato che non può fare altrimenti, ma con tutta la razionalità di chi invece può scegliere. Non parlo di una scelta tra “giusto” e “sbagliato” – concetti troppo vaghi per chi si è addentrato nei labirinti del profondo – ma tra opportuno e meno opportuno.

O forse, queste sono solo sciocchezze, e quello che stavo chiedendo era l’Amore nella sua forma ultima, la più terribile. E Lei è venuta, sovrapponendosi come un virus informatico ai miei messaggi, isolandomi dai contatti, prima virtuali e poi reali, imprimendo la sua immagine (la sua vera immagine, non quella che usa nella vita di tutti i giorni) sul mio profilo, visibile a tutti, nei file del mio computer. Virus, a tutti gli effetti.

Ecco la porta che si chiude, al piano di sotto, e Lei.

Mi rimangono poche righe per i saluti, e poi si compirà l’ultimo gioco. Non mi rimane che affrontare l’ultimo stadio di questa malattia, quella che c’è dopo l’Amore e che nessuna storia ci ha mai spiegato, perché sta oltre il velo della realtà, e dopo, in altre forme, sarò finalmente guarito.

Hassan_FildorFildor

venerdì 14 maggio 2010

Lo schiavo perfetto torna tra noi

Con l'occasione di Pop Porn X edizione "La Poppa del Mondo" (15 maggio 2010 allo Shangò, Roma) è tornato tra noi "Lo Schiavo perfetto" in Sado-polo, la sfida tra pony-girl e pony-boy

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