martedì 21 settembre 2010

Daido Moriyama a Modena

faccio un giro su exibart, in effetti era un po' che non ci tornavo, ed ho subito la sensazione di essermi persa qualcosa.
guardo la fila per palazzo barberini a roma in video, l'articoletto riprende in pieno quello che deve essere successo: riapre un palazzo spettacolare, alemanno & co. aprono l'ingresso al pubblico gratuitamente per la notte ovviamente senza preparare un bel tubo (non youtube stavolta), ché non se l'aspettano che ci sarebbe andata mezza roma, mica è uno stadio... 
io non ci sono andata, (non ci pensavo proprio) sapendo già del bagno di folla. avendo la fortuna di lavorare a casa negli anni ho sempre preferito andare a vedere le mostre in orari diversi dalla folla, evitando accuratamente il we, anche se la notte ha il suo fascino.
passo oltre e guardo cosa c'è di bello in questi giorni, spesso facendo questo vado a naso, leggo nomi che non conosco, o che conoscevo e non ricordo più (sovente), e vengo attratta da daido moriyama, adoro i giapponesi, sono quasi sicura che adorerò anche lui, peccato la mostra sia a modena.
faccio un bel copia e incolla del suo nome su google immagini e vengo colpita da un mosaico in bianco e nero di immagini forti, semplici e imperfettamente perfette (diverse delle quali già viste). sanno di vita, c'è una figa in rete affianco a un cane randagio affianco a un pezzo di strada e per una volta la ricerca di google non è brutta da vedere, non so perché ma quelle foto, così diverse per soggetti, stanno benissimo l'una vicina all'altra.

torno sull'articolo della mostra e trovo che almeno in qualcosa c'ho azzeccato:
"Le mie fotografie non raccontano una storia, immortalo degli attimi, delle piccole cose all’interno del tutto”, spiega Moriyama. "Scatto diecimila foto e poi le pubblico in un libro, così senza un ordine. Mi darebbe fastidio l’idea che ci fosse una sorta di percorso didascalico. Le fotografie sono messe a caso, ma sono tutte sullo stesso piano: ognuna ha lo stesso valore. Sono tutti frammenti uguali di una stessa realtà”.

decido di farci un taccuino, se a modena non posso andarci io magari potrà andarci qualcun altro, quindi torno sulle immagini di google per ispirarmi e per trovare qualche scatto da inserire e... ma quella è la mia maglietta!

beata memoria, per fortuna che non sapevo chi fosse, vado in giro con questa maglietta da tre anni (riportata da tokio) e ne vado orgogliosa!

vorrà dire che la prossima volta che qualcuno mi dirà "posso mettere la mano lì" gli dirò "dove, sulla foto di daido moriyama?" 
tanto per fare la figa... sempre se mi ricorderò ancora il nome











Daido Moriyama
Modena, Ex Ospedale di Sant’Agostino


dal 17 settembre al 14 novembre 2010
Daido Moriyama - Visioni del Mondo
a cura di Filippo Maggia

Ex Ospedale di Sant’Agostino
Via Emilia Centro, 228 - 41100 Modena
Orario: da martedì a domenica ore 11-19
Ingresso libero
Catalogo Skira
Info: tel. +39 059239888; 
fax +39059238966; 
Radaaria

martedì 27 luglio 2010

Pelle di fuoco

Pelle di fuoco attrae
le mie dita
Sensibilità Sensuale Scende nei miei Sensi
liquida eccitazione
a girar la testa
-rivolo tintinnante tra
calde viscere
-arriva nel profondo e
schizza d'adrenalina
e Voglia smisurata
di Torturare quel Fuoco di pelle
Pensiero sadico
si fa fredda goccia
stimola sussulti e guizzi
i Muscoli
-e ancora goccia
forme di animali in Trappola
-e ancora goccia
del mio peso-volere
-e ancora goccia
La voce trattenuta si spezza
-e ancora goccia
si Libera in Urlo


Radaaria

martedì 8 giugno 2010

Essere se stessi

Trapani, prime nozze gay in chiesa
La cerimonia nel tempio dei valdesi


Benedetta l'unione tra due donne tedesche. Matrimonio inedito in Italia per una confessione cristiana. Duecento ospiti al rito

di LAURA SPANO'
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In un mondo in cui è sempre più facile comunicare, eppure sempre più difficile comunicare le verità e le realtà che ci circondano, più facile parlare per tutti, più difficile farsi ascoltare per i più, più facile lamentarsi in sordina senza incidere su niente, più difficile far arrivare il proprio scontento sull'incapacità di vivere come si potrebbe, dovrebbe, ossia bene: in questo mondo, per me, questa è una bella notizia.

Per me la Libertà è esserci, con tutto di sé, con il proprio corpo, la mente, il proprio amore, le emozioni, per quello che sono e non per quello che altri vorrebbero che fossero, con le proprie azioni e la possibilità di viversi completamente, con i limiti del non fare male agli altri non con i limiti imposti da chi non vuole vedere le diversità.

Libertà è esserci e partecipare, senza dare addosso agli altri ma con la dignità di poter essere se stessi fino in fondo. Senza rischiare di venir linciati per questo.

Il 7 aprile 2010 Trapani ha ospitato un evento libero, di una civiltà che per fortuna possiamo ancora sognare e sperare, il 7 aprile 2010 Trapani è stata il futuro che sogno.

Radaaria

venerdì 21 maggio 2010

ULTIMO TACCUINO

Si può amare la propria malattia?

È questa la domanda che ossessivamente continuo a pormi, rinunciando a priori ad una risposta, mentre resto in attesa, la casa vuota e buia, la porta d’ingresso alla fine delle scale lasciata aperta.

Non mi riferisco alla rassegnazione a cui il malato approda, quasi invariabilmente, quando la lotta contro il morbo si è fatta vana e l’afflizione del corpo diventa mutamento, acquistando le fattezze di una nuova, tragica identità. Uno stadio che segue a quelli della negazione e della paura e che a volte è il necessario passaggio per un’insperata e improbabile guarigione.

No, io sto pensando – se pensieri si possono definire queste spirali mentali, che partono dal nulla e a nulla arrivano – ad un vero e proprio innamoramento, un’ossessione che riguarda una entità ben precisa, che per qualche decisione del Destino ha scelto te invece che milioni di altri esseri, ben più meritevoli del suo terribile amore.

Mi domando e aspetto, nel buio illuminato solo dalla luce dello schermo su cui vedo apparire le parole che voi leggerete.

C’è stato un rumore, sotto. In altri tempi non lo avrei avvertito, ma i miei sensi ultimamente si sono fatti incredibilmente acuti, come quelli di un protagonista di racconto di Poe. Buffo pensiero, potrei essere io uno di quei personaggi, immaginandomi di trovarmi a scrivere con una penna d’oca in un’ala di un castello in rovina, piuttosto che in questa casa ai confini della città.

Il rumore non si ripete. Ho ancora un po’ di tempo, credo. Di certo non è stato il gatto.

Non so bene il motivo per cui sto scrivendo, voi leggerete questo scritto e penserete che sia un racconto. Magari lo criticherete anche o, come si dice nel nostro/vostro gergo, lo “svaccherete”. Non importa, ogni cosa va bene, perché non sarò lì a leggere l’unica cosa che veramente mi potrebbe importare, ovvero la risposta alla mia domanda.

Si può amare la propria malattia?

Quando sono entrato nel sito, ormai qualche anno fa, non ero “vergine” di pratiche sadomasochistiche. Non che mi sentissi un novello De Sade o Von Masoch, ma le circostanze del destino e una certa rilassatezza rispetto alle aspettative, da molti confusa con sicurezza di sé (equivoco che mi sono sempre ben guardato dal chiarire), mi avevano permesso di realizzare parecchie delle mie fantasie. E quelle non concretizzate mi erano venute a noia, al solo pensarle troppo.

Con quella saggezza degli sciocchi chiamata il senno del poi, posso comprendere che questa attitudine era terreno fertile per il proponimento che mi ha portato a tutto quello che è seguito, a questa attesa nel buio. L’insoddisfazione a volte sa essere un morbido guscio all’interno del quale nutrire l’immagine vagheggiata di ciò che crediamo di volere, che nella nostra stupidità pensiamo ci renderebbe immensamente felici, e che sta proprio là fuori, da qualche parte, aspettando solo di essere cercato e richiamato. Ma nel profondo sappiamo che, a volte, è meglio che quella porta giù, in fondo alle scale, resti ben chiusa.

Avendo provato ogni tipo di esperienza fisica, o quasi, mi montò man mano un completo rifiuto per qualsiasi fantasia di specifiche pratiche, baloccandomi invece sempre di più con il pensiero di un totale abbandono ad una Volontà altrui.

Velleità scontata, me ne rendo conto, ma quello che forse rendeva questo proponimento particolare, rispetto a tanti altri, e all’occorrenza anche morboso, era l’assoluta mancanza di passione nella mia ricerca. Valutavo l’esistenza, là fuori, di un Essere Superiore a cui donarmi, senza provare il sacro fuoco dello schiavo, che sente in gioco il senso stesso del suo essere in quanto tale. Anzi mi scoprivo a immaginare, nel mio sconfinato narcisismo, il gusto di cedere completamente ad una persona assolutamente non meritevole non solo della mia stima, ma anche della minima fiducia. Il disprezzo che cominciavo a sentire per questa Superiore (nelle mie fantasie doveva essere necessariamente donna) andava di pari passo con il senso di eccitazione di star giocando con pensieri essenzialmente autodistruttivi, nel gioco invisibile di chi tormenta con la lingua il proprio dente malato, atteggiando all’esterno una perfetta maschera d’indifferenza, e contenendo dentro di sé un piccolo cosmo segreto di dolore.

Postai un’inserzione, laconica, semplice. Nelle mie inutilissime letture sulle antiche pratiche della Tradizione magica ho imparato che ciò che conta, alla fine, è l’Intenzione. Ma l’Intenzione non è la volontà, non basta digrignare i denti e dire “questo lo voglio”.

Ciò porterebbe ad ipotizzare che l’essere umano abbia due livelli di “volontà”: uno razionale e conscio, destinato ad essere frustrato il più delle volte, ed in cui ci identifichiamo; ed un altro, sotterraneo, l’Intenzione appunto, che ci spinge alla realizzazione di ciò che veramente siamo, e che fa accadere le cose. Anche queste sono cose già lette e sentite, ma forse quello che i manuali di new age non dicono è che il nucleo di questa segreta volontà non riguarda sempre “la realizzazione del Sé più Alto”, e cieli azzurri e anime radianti, ma più spesso è qualcosa di oscuro, un cuore pulsante nel buio strappato dalla scatola toracica, che continua a battere, in attesa.

Lei rispose alla mia inserzione. Ricordo perfettamente il suo sintetico messaggio, parole secche, quasi disturbanti nella loro semplicità. Non mi piacquero, gli ultimi scampoli del mio istinto di sopravvivenza stavano alzando il pelo contro quella che, a qualche livello, sentivo essere un’insopportabile invasione, silenziosa e garbata nella sua laconicità come i movimenti di una geisha.

Eppure…

Non credo di avere il tempo per farvi un resoconto accurato di questa storia, e mi dispiacerebbe dovermi interrompere nel mezzo di un periodo, consentitemi questo ultimo patetico narcisismo. Dopo aver assaporato fino all’ultima fetida feccia ogni feticismo possibile, imposto da Lei, l’ultima parafilia che mi è rimasta è quella della bella frase. Patetico.

I pensieri si confondono, e la memoria mi fa scherzi. Ho scritto già quello che mi fece? Forse no, ma non ha molta importanza. Ho paura, adesso? Difficile anche questa risposta. In questo percorso – perché di percorso, infine, si tratta – ho compreso che la paura è una specie di cintura di sicurezza biologica che troppi scossoni possono spezzare, alla lunga. Che stupida metafora, sarà bene che giunga alla conclusione, la mente comincia a tradirmi.

Qualcuno potrebbe dirmi perché non fuggo via. La prima risposta è che mi troverebbe comunque, e dovunque. La seconda risposta è che ho difficoltà a muovermi, dopo varie settimane di quelli che amava chiamare i nostri “giochi”. La terza è quella più interessante.

Prima di tentare una risposta debbo fare una scusa ai lettori di questo scritto, o perlomeno a quelli che avranno avuto la costanza di arrivare fino a questo punto, vincendo la noia di una trattazione confusionaria e senza costrutto. Ho riletto qualche riga di ciò che sto scrivendo di getto e l’impressione è stata quella di una spirale che torna su se stessa, un autocompiacimento duro a sopportare che non chiede altro che qualcuno giunga a mettere la parola fine. Se questo fosse un racconto di genere, prevederebbe a questo punto la rivelazione, più o meno originale, sulla sua identità. Chi è Lei?

Mi sono fatto più volte questa domanda. Se fosse stato un parto della mia fantasia, forse sarebbe stata la Mistress dell’Oscurità, uno spettro tornato dalle Ombre, desideroso di morte e lussuria, intenzionato a compiere una propria imperscrutabile vendetta, vendetta la cui natura avrei lasciato all’immaginazione del lettore, un po’ per effetto (il peggio che può immaginare la vostra mente sarà sempre più pauroso di ciò che posso sforzarmi di immaginare io per voi) e un po’ per pigrizia.

Non è la Mistress dell’Oscurità. Ha una forma ben precisa, un’identità, vive la sua vita e si paga la casa con un lavoro monotono e banale. È la persona che potete incontrare per strada, o incrociare sulle scale, e dimenticarvene dopo cinque minuti.

Non è un essere morto, credo.

Eppure, è anche altro.

Credo che sia una malattia. Non sto parlando per metafora. Gli eventi che mi sono occorsi negli ultimi giorni mi hanno fatto credere che esistano una gran varietà di esseri, sotto questo cielo. Le malattie, i morbi, le afflizioni o come vi piace chiamarle, sono risposte che giungono a nostre ben precise domande. E non tutte prediligono il veicolo materiale di virus o batteri o sangue infetto. Alcune di queste prendono corpi e identità.

Perché ho lasciato che si arrivasse a questo, che mi riducesse a questo? Non ho alcuna giustificazione, da subito ho avuto le prime avvisaglie di quello che Lei voleva, e del posto in cui mi stava conducendo. Di certo l’ho capito dopo aver visto cosa ha fatto al gatto. Ricordo bene il suo sorriso, come avesse voluto lasciarmi bigliettini amorosi nascosti in varie stanze.

Ma era la risposta a quello che avevo chiesto, la mia personalissima perversione, quella di sperimentare da “sano”, con estrema consapevolezza, una desiderata condizione di patologia, abbracciata non con la rassegnazione del malato che non può fare altrimenti, ma con tutta la razionalità di chi invece può scegliere. Non parlo di una scelta tra “giusto” e “sbagliato” – concetti troppo vaghi per chi si è addentrato nei labirinti del profondo – ma tra opportuno e meno opportuno.

O forse, queste sono solo sciocchezze, e quello che stavo chiedendo era l’Amore nella sua forma ultima, la più terribile. E Lei è venuta, sovrapponendosi come un virus informatico ai miei messaggi, isolandomi dai contatti, prima virtuali e poi reali, imprimendo la sua immagine (la sua vera immagine, non quella che usa nella vita di tutti i giorni) sul mio profilo, visibile a tutti, nei file del mio computer. Virus, a tutti gli effetti.

Ecco la porta che si chiude, al piano di sotto, e Lei.

Mi rimangono poche righe per i saluti, e poi si compirà l’ultimo gioco. Non mi rimane che affrontare l’ultimo stadio di questa malattia, quella che c’è dopo l’Amore e che nessuna storia ci ha mai spiegato, perché sta oltre il velo della realtà, e dopo, in altre forme, sarò finalmente guarito.

Hassan_FildorFildor

venerdì 14 maggio 2010

Lo schiavo perfetto torna tra noi

Con l'occasione di Pop Porn X edizione "La Poppa del Mondo" (15 maggio 2010 allo Shangò, Roma) è tornato tra noi "Lo Schiavo perfetto" in Sado-polo, la sfida tra pony-girl e pony-boy

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giovedì 29 aprile 2010

La prima volta

Alle volte si scrivono cose che rimangono nel tempo, a cui non dici mai "non ti ho scritto io", cose che vorresti riscrivere oggi e che sai che le riscriveresti allo stesso modo

Prima pagina di taccuino

di Radaaria
lunedì 31 maggio 2004

L'eccitazione è quella della prima volta...

il primo quaderno, lo sfogli e ne senti la superficie con le dita, non ha segni,

è liscio e immagini quando sotto le dita sentirai i delicati solchi lasciati dal passaggio della tua mano ad incuneare... segni.



Come la prima volta con un nuovo schiavo.

Ed ogni volta è sempre come la prima volta.

Ed ogni volta è sempre diverso.

Lo sguardo che dice cose diverse e sempre uguali: "cosa mi vuoi fare?" "devo avere paura?" "posso stare tranquillo e lasciarmi andare?"

e il controllo che ancora mantiene odora di adrenalina

e vibra nelle mie narici eccitando il sangue che comincia a scorrere più fluido e batte il ritmo della musica che sto per suonare.



Il momento prima di cominciare è esaltante, non sai ancora se la musica sarà classica o sarà dark o rock e non sai ancora se lo strumento che hai davanti ti seguirà docilmente o avrà bisogno di essere accordato.

E il momento prima di cominciare è quello che mi piace far durare di più, che siano pochi minuti che sembrano ore o addirittura giorni, lasciando l'altro a pensare "ma forse non faremo mai niente, forse non gliene frega niente", lasciando che lo sguardo di desiderio si spenga nell'orgoglio o nell'incomprensione.

Allora, quando non se lo aspetta, arriva il primo segno, ed è come acqua gettata in faccia, uno squarcio di questa dimensione che porta in quel mondo... di segni.


R

giovedì 22 aprile 2010

A Snake of June

A Snake of June (六月の蛇, Rokugatsu No Hebi)
un film del 2002 di Shinya Tsukamoto.
È stato presentato alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2002 nel Concorso Controcorrente, ottenendo il Premio Speciale della Giuria.

"Il serpente è quello che tutte le donne hanno in corpo. Una metafora che mi attrae da sempre. Quando penso ad una donna, la immagino con un serpente che le vive dentro"
(Shinya Tsukamoto - Intervista sul manifesto, 4 settembre 2002)

"Per un lungo periodo di tempo, ogni anno quando arrivava la stagione delle piogge, continuavo a pensare con rammarico, mentre guardavo in tralice una bella ortensia, che neanche questa volta avevo girato A Snake of June. E così sono passati dieci, anzi, forse quindici anni"
(Shinya Tsukamoto - Andrea Caramanna, Expanded Cinemah, 6 settembre 2002)

Un film particolare, per chi ama e conosce il Giappone di più facile lettura, per chi ama e conosce, o è attratto da, il BDSM e il Fetish, ricco di spunti per il dialogo.

Dalla pelle umida di Rinko, la protagonista, ai suoi orgasmi liberatori, all'esposizione del suo corpo al mondo esterno, che prima sembra giudicare e poi gode sottomesso alla sua bellezza imposta, seguiamo un percorso fatto di "giochi di potere", in cui il potere si succede dall'uno all'altro dei protagonisti, in uno scambio prima non consensuale e poi ricercato e fortemente voluto dalla donna, "a snake".

Il rapporto con l'estremo, e soprattutto con la morte, porta i personaggi a scoprire la vita, attraverso l'esperienza dei propri desideri che prendono corpo, facendo crescere una consapevolezza che è il senso dell'essere, del vivere senza sconti e senza compromessi, uccidendo quel silenzio e quell'assenza di dialogo che era poi la vera non-vita.

Perché non c'è rapporto con l'altro se quest'ultimo viene forzato ad una bidimensionalità che non vuole e che non lascia spazio per vivere e per godere. Il sesso (anche solo da dietro o davanti una macchina fotografica) da perversione, voyeuristica ed esibizionistica, diventa liberazione, forzando un po' e poi aprendo le porte della comunicazione e sanando rapporti che sembravano allo stadio terminale.

Un film, infine, che lascia spazio all'immaginazione nei suoi punti più onirici, e che vuole essere un omaggio alla donna, che da oggetto diventa volutamente oggetto del desiderio, per un riscatto e un premio che è "solo" la vita.


Radaaria

venerdì 16 aprile 2010

Sebastiane e Obama

35 anni fa Derek Jarman gira un lungometraggio che dà scandalo, ma anche no.
il primo film omoerotico, Sebastiane, non viene passato a Cannes e viene fischiato a Locarno.
subito dopo però viene distribuito, in inghilterra dove è nato, con successo, di pubblico e critica.


quello che non verrà capito negli Stati Uniti, che lo bolleranno come film sessuale e lo relegheranno ai cinema porno annoiando una platea che cerca stimoli onanistici, è che quello ripreso è amore, non sesso fine a se stesso, è ricerca dell'altro in un amore omosessuale che non ha nulla di cui vergognarsi, fatto alla luce del sole e forte come l'amore del Sole stesso, quel Dio a cui Sebastiano dedica la vita, o forse più la morte.


quadri viventi, svelati, scoperti, dalla luce del sole che regala visioni e rallenta e dilata il tempo e le immagini.
prima del peccato, quel peccato che nasce proprio nel momento in cui Sebastiano non si dà all'amore di Severo ridendogli in faccia e schernendolo come impotente, ubriaco e impotente.


35 anni dopo il presidente degli Stati Uniti afroamericano Barack Obama ha ordinato agli ospedali americani di riconoscere i diritti delle coppie gay (leggi) permettendo al compagno indicato di seguire il malato dove fino ad ora non poteva.

prima o poi il sole arriva.



Radaaria

giovedì 4 marzo 2010

BRIDGET THE MIDGET o L’ATTRAZIONE PER LA DIFFORMITA’

Bridget Se in questo esatto momento il Genio della Lampada della Libidine mi concedesse la realizzazione di uno specifico desiderio, ovvero quello di passare un’intera notte di sesso lussurioso e perverso con una Pornostar degli ultimi tempi, la mia scelta non ricadrebbe su fanciulle del calibro di Jenna Jameson, Belladonna o Aria Giovanni (se questi nomi non vi dicono niente credetemi sulla parola, sono operatrici del settore bellissime e molto portate per la professione).

No, la prescelta sarebbe qualcuno al di fuori della classifica delle top 100, molto diversa dalle signorine testé citate, un piccolo folletto del sesso, un bizzarro elfo del peccato, l’altra faccia delle favole della buona notte, 1 metro e 14 cm di pornostar, l’unica e sola Bridget Powers, altrimenti conosciuta come Bridget the Midget.

Bridget Sì, è una nana, e il termine tradotto in italiano assume tutta la crudezza di cui solo noi “normali” siamo capaci.

Ho “scoperto” Bridget cercando foto di modelle gothic e punk per un progetto di racconto che chissà se e quando vedrà la luce. Nelle mie saltuarie ma reiterate passeggiate nel porno mi ero già imbattuto di sguincio nel genere midget, ma non mi aveva mai attirato, anzi avevo provato quella vaga repulsione (probabilmente condivisa da molti) subito sedata dalla mia coscienza “progressista” che si compiaceva dei propri progressisti pensieri pensando “beh, almeno anche loro si divertono, e poi se c’è gente a cui piace vedere queste cose perché no, come posso pretendere che i miei feticismi siano più normali dei loro, e bla bla bla”. Chiacchiere di una mente pervy, democratica e pericolosa.

Poi, un primo piano intenso, occhi dal taglio allungato, un nasino costellato da una spruzzatina di efelidi, una bella bocca, il tutto con una certa sproporzione tra le parti che invece di disturbarmi mi attirava di più. Aprii la foto successiva e realizzai la tremenda verità. Quel bel volto sbarazzino e malizioso era quello di una nana! Niente fronte sporgente, occhi a palla o guance rotonde, quella era la testa di una bella ragazza messa sul corpicino “sbagliato”.

Mi sentii subito una merda (e a ragione!) per aver pensato una cosa del genere. Il mio corpo quindi era giusto e il suo sbagliato? O non è forse più corretto pensare che è la maggioranza a creare la normalità? In un mondo di nani Monica Bellucci probabilmente sarebbe una freak affascinante per alcuni, ma ributtante per molti.

Così, con la stessa curiosità intellettuale provata spulciando vita e opere di artisti o scrittori, mi sono andato a informare su Bridget the Midget.

Bridget è nata da genitori “normali” (più uso questa parola e più la detesto) che pensarono bene di divorziare quando lei aveva appena un anno. In un’intervista lei stessa avanza l’ipotesi che suo padre fosse spaventato dall’idea di avere una figlia “anormale”, e in qualche modo abbia voluto fuggire la responsabilità.

Bridget ha subito molte operazioni nell’età che va dai quattro ai quattordici anni per correggere l’anomala curvatura della gamba sinistra, cosa che, per usare le sue parole, l’ha portata a diventare abbastanza folle, soprattutto in adolescenza, forse per tutti i farmaci propinati durante le cure. Tuttora Bridget indossa un tutore al ginocchio sinistro, praticamente sempre.

Bridget ha fatto la prostituta, la lap dancer, la mangiatrice di spade, la spogliarellista di burlesque, la cantante rock e naturalmente la porno star. Bridget ha vissuto più vite nel suo piccolo corpo di quante normalmente ne vivono le persone normali, e uso per l’ultima volta questo aggettivaccio con tutta la consapevolezza necessaria.

Notizia ferale per i suoi fan, Bridget ha deciso di lasciare il business del porno perché si rifiuta di girare scene senza il condom, oggetto che evidentemente non riscuote molto successo nell’ambiente.

In un’intervista molto interessante Bridget afferma cose che mi hanno molto colpito. Tra queste la percezione che qualsiasi cosa faccia nella vita sia per lei, in qualità di little person, in qualche modo più sentita, nel bene e nel male. Ogni sforzo è maggiore, come lo è anche il piacere e il dolore. Ogni impresa è più difficile, ma per corrispettivo ogni traguardo raggiunto causa una gioia maggiore. Quando l’intervistatore le chiede se le piace essere come è, Bridget afferma una cosa molto semplice e vera: nella vita ogni persona vuole essere differente, e lei ha già la “fortuna” di esserlo.

Bridget Dal momento che non riesco a vivermi le mie improvvise pulsioni fantastiche ed erotiche senza tentare una parziale spiegazione, mi sono chiesto perché questa infatuazione per Bridget. Forse sto spacciando come interesse culturale e professionale l’affiorare di una nuova devianza nel mio immaginario sessuale (già abbastanza borderline), ovvero il feticismo per i nani, o nello specifico, le nane?

Si è detto che il feticcio è ciò che sta al posto di, e se è così, in questo caso, la gente piccola a che cosa rimanda?

venerdì 12 febbraio 2010

Legami

Ad implorarmi

non è la sua voce fatta muta

non è il suo sguardo tremante

non le mani impacciate

non la pelle lucida



è la stessa vita sua

che chiede di essere mia


Radaaria

venerdì 5 febbraio 2010

Banner grafica 1.0


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mercoledì 3 febbraio 2010

Radaaria

Sono un’immagine

L’ombra leggera dietro le tue spalle quando ti guardi allo specchio, se distogli lo sguardo dai tuoi occhi svanisco, e torno a comparire nell’espressione dubbiosa tra le sopracciglia

Sono l’attesa del Ragno, sempre affamata e sempre sazia, capace di materializzare la vittima e renderla succulenta

Sono l’afflusso di sangue alle gengive, e il pulsare del desiderio

Sono il segno nero e fluente tra le carni, sparisco quando si toccano e colpisco inaspettatamente

Lo schiocco della frusta e il rossore che appare

Sono quello che ti faccio vedere, miraggio di sogni e sesso

Ho chi tesse le fila per me, do forma ai suoi pensieri,
ne accarezzo l’immagine, al centro della tela

Sono Radaaria

martedì 2 febbraio 2010

Fildor

Oltre la pesante porta sbarrata di fronte la quale sono seduto, passi pesanti lungo i corridoi, ordini secchi e sguaiati in una lingua che sembra straniera, a volte grida, ben presto soffocate.
Alle mie spalle, la grande finestra dai vetri spessi, attraversata da sbarre la cui ossidazione ha donato un bel colore brunito, simile ad oro scuro. Fuori, tramestii, grida di dolore e vittoria, scalpitii di cavalli ed il lontano rumoreggiare dei cannoni.
Io, se posso essere considerato un “io”, siedo a questa scrivania, di fronte a me una pila di fogli di carta ingiallita, una penna d’oca, ed una boccetta d’inchiostro. Non mi fanno mancare mai carta e inchiostro, me la portano quando dormo, non sono mai riuscito a vederli. Spesso ho finto di dormire, a volte anche per ore, ma hanno sempre aspettato il momento opportuno per entrare, quando realmente fossi sprofondato nel sonno.
Sono prigioniero, in una elegante e calda gabbia dorata.
Non ricordo i delitti per cui sono stato ingabbiato, non sono neanche sicuro di essere stato regolarmente processato, perché io, non sono proprio un “io”.
Ho un nome, guadagnato o regalatomi in qualche maniera in altri tempi, e questo nome è Fildor.
Un filo d’oro che serpeggia tra le righe che vedo fluire dalla punta della penna, come fosse un altro a scriverle, e che lega ricordi di fatti mai avvenuti e speranze di un domani inesistente.
Sono Fildor, il prigioniero, forse l’unico prigioniero di questa bastiglia onirica. Le grida, il rozzo marciare delle guardie, potrebbero essere solo sbarre della mia immaginazione, l’elaborata immagine di una prigione che ho costruito attorno a me stesso, per garantirmi questa comoda e solitaria cella.
Alzo la testa dalle carte e mi guardo intorno. Adagiata sul sofà, una bellissima giovinetta mi guarda con occhi da gatto, mentre lentamente si fa scivolare il dito nella fessura luccicante.
Bassi mugolii, risucchi liquidi ed un fremito di ombre mi aiutano a intuire che nell’angolo est della grande camera, proprio dietro l’imponente libreria, sta avendo luogo una piccola orgia.
Lo schioccare regolare di un frustino mi fa capire che proprio dietro di me, sotto la finestra sbarrata che mi offre visioni del Grande Nulla là fuori, un’inflessibile educatrice sta impartendo la sua lezione ad una vittima in estasi. Quest’ultima deve essere imbavagliata, perché non distinguo alcun lamento.
Guardo meglio intorno a me. La camera ora è vuota. I fantasmi appaiono e scompaiono, legati dalle catene d’oro della scrittura.
La carne e le parole della carne sono il giudice e la giuria che mi ha condotto qui, consensuale prigioniero, parte di un’individualità che mi travalica e di cui non mi interesso da tempo.
Il me stesso più alto ha una vita reale, suppongo. Eppure credo che a volte invidi la mia vita da recluso, visitato dai fantasmi del sesso. Mi servo dei suoi ricordi di incontri “reali”, per fabbricare le mie storie inventate. Eppure, il godimento della sua realtà, in gran parte proviene da questa umile fucina segreta, dalle mie carte.
Sono un essere senza carne che racconta storie di carne e desiderio.
Sono il prigioniero, che non baratterebbe nemmeno la più grande delle vostre libertà con la più innocua visione di queste ombre.
Lo schizzo del mio sperma disegna un arco d’argento nell’aria e si adagia su rotondità vellutate coperte dal buio, forse un paio di soffici seni, forse le spalliere di una poltrona. Sento mugolii soffocati e flebili carezze di fantasmi.
Non sono reale, ma questo non deve essere un problema per voi. La differenza tra me e voi è che io ne ho la consapevolezza.
Sono Fildor, e queste sono le mie storie.




Chi è Fildor.

Come accade per molte creature letterarie, Fildor è nato da un nome. Semplice contrazione di un cognome esistente, ha assunto ben presto una sua personalità parassitaria.
La scelta sconsiderata di dare un nome alla deriva letteraria erotica di uno sconosciuto autore ha organizzato pulsioni discordanti tra loro, ma accomunate da desideri di carne, di realtà concreta, di materia al livello primario. Tutto questo si è incanalato, per ovvie ragioni, nel mondo del sesso e dell’erotismo raccontato ed illustrato, e da questo è nato Fildor.
Dare un nome ad una cosa può essere un grande sbaglio, può farla vivere.
Fildor, attraverso l’identità reale dello sconosciuto autore, scrive le sue storie e a volte le pubblica, ma questa è solo la sua attività più superficiale.
Io credo che Fildor sia profondamente malvagio. Non mi illudo che questo giudizio sia del tutto libero da una certa morale cattolica del sesso, che bene o male mi è stata travasata con gli anni; ma al di là di questo, penso che quell’essere che dimora in me (perché sono io lo sconosciuto autore, come avranno già capito i lettori più avveduti) abbia piani più sottili e inquietanti che quelli di farmi scrivere semplici racconti erotici.
Fildor vuole aprire una porta, forse la stessa porta che lo chiude nella sua stanza, descritta nella sua presentazione. Quando questo accadrà, io non esisterò più, e Fildor sarà tra di noi.
Un mostro in più in un mondo di mostri, diranno alcuni, scrollando le spalle.
Può essere vero, forse un mostro in più non fa poi questa differenza, ma per una goccia in più il vaso ha traboccato.
Che Dio mi aiuti.

Fildor

venerdì 29 gennaio 2010

Il Libro delle Porte di Carne

I brani riportati fanno parte delle memorie di Erodio il Cenobita, meglio conosciute come il Libro delle Porte di Carne (o semplicemente il Libro della Carne), che molti si sono accaniti a definire l’ennesimo esempio di quella bibliografia “fantastica”, ovvero completamente fasulla, invenzione di autori burloni in cerca di credibilità a buon mercato.
La stessa esistenza di Erodio il Cenobita non viene riconosciuta dagli studiosi della patristica, e di lui sembra sia scomparsa ogni traccia negli annali della Chiesa arcaica.
Ma la realtà è ben diversa. Il Libro delle Porte di Carne esiste, ed è uno di quei libri “viventi” che con il passare dei secoli hanno acquisito una volontà propria, ben al di là delle intenzioni degli stessi autori.
In definitiva il Libro delle Porte di Carne, nel suo linguaggio arcaico e criptico, descrive i rituali necessari per entrare in Kalka.

Kalka è una dimensione dove è l’Immaginario erotico a plasmare la realtà.
Chi ci vede un inferno, vivrà un inferno. Chi si aspetta demoni, troverà demoni.
Kalka è un luogo mutevole, come mutevole è il Desiderio delle donne e degli uomini.

I varchi tra la nostra realtà umana e quella di Kalka sono disseminati dappertutto, ma poche sono le vere Porte, una sola per ogni generazione a leggere le parole di Erodio.
Determinate pratiche tantriche rituali possono aprire temporanei passaggi tra i due mondi; incubi e succubi che infestano i sogni degli uomini e delle donne non sono altro che spiriti di Kalka che sono penetrati nella nostra realtà grazie al desiderio umano (e poco importa se la nostra stupida epoca materialistica nega loro un’esistenza extraumana e li associa a semplici disturbi della sessualità o deviazioni mentali).

Entrare nell’Universo di Kalka, in fondo, significa entrare nel profondo del proprio Desiderio, dove ogni finzione cade, e dove le catene più strette non sono altro che il necessario passaggio verso la più completa libertà dell’essere se stessi.
Il costo è l’anima, ma, per molte delle creature di Kalka, questo è un pegno del tutto accettabile.



(Fildor)

giovedì 28 gennaio 2010

La Chiave

“Mentre sto scrivendo queste righe, qui nella mia grotta solitaria, all’odore pungente di latte cagliato, mio unico cibo, il ricordo di quelle visioni infernali mi pare talmente irreale da sembrare il delirio di un povero pazzo.
Ma io ho vissuto tutto questo, ne sono testimonianza i segni sul mio corpo, che di giorno in giorno cambiano colore e si muovono sulla mia pelle come orridi serpenti.”

“Quel luogo esiste. Alcuni lo chiamano Inferno, altri Ade, Gehenna o Amentet. Io l’ho conosciuto sotto il nome di Kalka.
Là dimora la Dea Demone Kalika, che mi ha strappato il cuore dal petto e l’ha deposto in un’urna di cristallo.
Sia messa alla prova l’arguzia d’uomo, poiché affermo che ogni creatura umana può, se è tanto sconsiderata di volerlo, entrare nell’inferno di Kalka.
Occorrerà trovare la Porta, poiché ogni generazione ha a disposizione varie porte, ma è una quella che consente l’ingresso.
La chiave per aprire la Porta è il desiderio senza bramosia.”

“Che l’Altissimo mi perdoni per aver rivelato segreti capaci di sprofondare l’intera Umanità nelle grinfie di Satana. Ma se è stato permesso che potessi entrare in Kalka, forse già da tempo non ho diritto ad alcun perdono, e la mia anima è irrimediabilmente perduta.
Quando ciò mi sarà chiaro mi allontanerò da Dio e dagli uomini, e donerò ciò che resta, la mia Carne, a colei che è depositaria di ogni magnificenza, la mia Dea Kalika, Signora di Kalka.”

(Fildor)

mercoledì 27 gennaio 2010

La Seduttrice

“Nulla accade, in questo o negli altri mondi, che non sia deciso dalla Suprema Volontà. Fu questo pensiero a spingere il mio fragile corpo tremante al di là della Porta dischiusasi di fronte a me, sotto lo sguardo terribile dei sei occhi della Dea che sembravano trapassarmi l’anima ed incenerirmi il cuore.”

“Come posso narrare ai miei fratelli nella Fede ciò che vidi, e udii, e assaporai e toccai in quel luogo, senza timore di perdere la ragione o, peggio, l’anima?
Come spiegare la percezione di non essere del tutto me stesso, mentre mi assoggettavo a quei rituali e offrivo la mia carne agli appetiti dei demoni?
Ma, ciò che è peggiore di tutti i peccati e che forse mi dannerà l’anima in eterno, come chiarire ai miei confratelli e a me stesso, che in quel momento di estrema sofferenza e di estremo godimento, mi sembrava di cogliere un disegno cosmico che giustificava le mie azioni, dandomi la cognizione di seguire leggi antiche, codificate quando l’uomo era ancora un infante su questa Terra?”


“La donna dalla maschera vivente fece un gesto lieve e rabbrividendo sentii il contatto di demoni invisibili che mi sfiorarono la pelle, andando a sollevare le catene che portarono il mio corpo immobilizzato all’altezza del suo trono.
Lo staffile della demonessa disegnò strisce scarlatte sulla mia schiena, mi inarcai, vinto dalla sofferenza, ma anche da una forma strana di euforia.
Aprii la bocca per pronunciare un’invocazione a Dio, ma quello che ne uscì fuori invece fu una blasfema dichiarazione di schiavitù eterna a quell’essere che in quel momento era la mia unica divinità. Lei, la nuda Kalika, la Seduttrice, l’Amante Demone.”

(Fildor)

martedì 26 gennaio 2010

La Porta di Kalka

“Che l’unico vero Dio Onnipotente, creatore del Cielo e dei Deserti e di tutte le creature visibili e invisibili che strisciano su questo mondo o si insinuano nei sogni degli uomini si degni di proteggere il più misero dei suoi servi, rinchiuso in questa prigione di carne infestata da parassiti e fiaccata da una vita di rinunce, mentre si accinge a vergare su questa pergamena le terribili visioni che lo hanno portato ad un passo dalla completa follia.

A maggior Gloria di Colui che governa gli astri e comanda le legioni dei demoni che affliggono questo mondo, io, Erodio il Cenobita, indegno servo del Padre Celeste, chiamato dalla plebe il Veggente, il Solitario, il Compagno delle Locuste, racconterò ciò che ho visto, con l’unico scopo di ammonire chi indulge nei peccati della carne, ignaro degli abissi, a tornare sulla via del giusto, una strada che forse a me è preclusa per sempre.

L’intera umanità cammina sul ciglio di questo abisso, la cui vista viene pietosamente celata alla maggior parte degli uomini…”



“Venni scaraventato nel profondo della voragine infinita degli spazi, mentre artigli invisibili mi dilaniavano il corpo e l’anima.

Dopo un tempo che mi spinse ad immaginare il concetto di “eternità”, precipitai in un pozzo di tenebre.

Alzai lo sguardo dal lago di oscurità e vidi stagliata sopra di me la sagoma di un portone immenso, librato nel vuoto dello spazio.

Mi affido alla Volontà di Colui che tutto determina nel raccontate questa visione, perché al solo ricordo la mente vacilla e dubita del suo stesso pensare.

Ad un primo momento la Porta mi sembrò di un materiale simile all’avorio, lavorato con una maestria talmente inumana da rivelare senza tema di smentita la sua natura diabolica.

Poi, trattenendo a stento un grido di orrore, mi accorsi che le figure contorte intagliate nella Porta erano animate da una vita spaventosa e innaturale.

Mi avvicinai, pieno di timore, più per allontanarmi dal contatto osceno delle tenebre liquide che per una peccaminosa curiosità.

Salii una scalinata che fino a quel momento mi era stata nascosta e potei rimirare la Porta da una minore distanza.

La sua grandezza toglieva il fiato e opprimeva l’animo, ma erano i suoi terribili bassorilievi viventi a farmi gemere come un infante terrorizzato.

La Porta era dominata per tutta la sua lunghezza da una figura femminile, il cui portamento e aspetto era quello di una regina, o una dea pagana.

La bellezza del suo volto e delle sue nude carni lascive mi oscurò l’animo a tal punto da non permettermi di accorgermi ad un primo momento delle sue connotazioni mostruose.

All’altezza della vita ben tornita della donna spuntavano altri due busti femminili, rispettivamente quello di una vergine dalla lunga chioma bionda e il seno ancora acerbo e l’altro appartenente a una selvaggia baccante dai capelli crespi e neri come d’inchiostro, intrecciati di foglie di mirto e, particolare orribile, con le voluttuose labbra macchiate di sangue.

Ai piedi della triplice Dea stava tutta una pletora di uomini e demoni, anelanti e gementi, pressati tra loro a tal punto che era impossibile distinguere le singole figure, brulicanti come un nido di vermi.

Ebbi l’impressione che ciascuna di quelle creature avesse da tempo offerto la sua anima immortale o il suo equivalente all’altare della Dea, e ora trascorressero così l’Eternità, nelle sembianze di statue viventi, suggendo dai piedi nudi della loro blasfema divinità il nettare infernale che incessante le ruscellava dalla lubriche cosce.”

(Fildor)